La domanda di sostenibilità del packaging nel nostro paese è molto alta e si traduce anzitutto in una richiesta di trasparenza. Secondo una ricerca di Nomisma presentata a Marca 2024, l’80% dei consumatori italiani ritiene importante sapere come la confezione verrà smaltita (recycle) o convertita a nuova vita (reuse). Questa richiesta è diventata vincolante un anno fa con l’introduzione dell’obbligo di etichetta ambientale (recependo le direttive UE 851 e 852 del 2018), che coinvolge tutti gli imballaggi di prodotti al consumo e fornisce informazioni su composizione e modalità di smaltimento dei materiali. I prodotti B2B sono anch’essi coinvolti dalla normativa, ma è sufficiente che esplicitino il materiale.

La trasparenza sui materiali permette a brand e retailer di confrontarsi ad armi pari, dove il giudice è naturalmente il consumatore che può scegliere in base a informazioni chiare ed uniformi. Da questo punto in avanti, si misurano non solo gli adempimenti (esempio, il divieto di plastica per i prodotti monouso) ma soprattutto le iniziative spontanee dei brand, che vanno oltre le prescrizioni di legge e mirano a dimostrare una sensibilità superiore alla media per la causa ambientale. I retailer, in particolare, assumono un ruolo centrale in quanto oggi possono determinare il proprio brand mix (anche) in base a un valore di sostenibilità, ed eventualmente partecipare con le proprie risorse economiche, logistiche e di filiera per favorirlo. Un grande gruppo come Lactalis, che in Italia produce tra gli altri Galbani e Parmalat, fa sapere che una parte importante dei propri investimenti in innovazione del prodotto riguarda la sostenibilità del packaging. È importante stringere accordi ad ampio respiro tra brand e retailer, come racconta Vittorio Fiore di Lactalis in un’intervista ad Altavia Watch, «per valorizzare gli sforzi compiuti verso la sostenibilità e creare consapevolezza nelle persone». Ancora Nomisma segnala il protagonismo della MDD in questo processo, dato che il 68% dei consumatori dichiara di aver preferito i prodotti a marchio di un’insegna perché proponevano una confezione più sostenibile rispetto ad altre marche. Non più un trend che può essere circoscritto ai millennials, come si diceva fino a pochi anni fa.

La domanda di sostenibilità, d’altronde, si traduce in precisi comportamenti di acquisto: tra questi, nel corso del 2023, emergono la prova di un nuovo brand per il 54% dei consumatori (interessati a un packaging più sostenibile) e persino l’abbandono di un brand di fiducia (perché ritenuto insoddisfacente in questo ambito) per il 18% del campione. La paura dell’abbandono l’ha avvertita da tempo Amazon, spesso chiamata in causa per l’ingente utilizzo di scatole e pacchi (a volte sovradimensionati). Con il programma Frustration-Free Packaging lanciato nel 2015, il re dell’eCommerce ha infatti ridotto del 41% il peso degli imballaggi, eliminando oltre due milioni di tonnellate rispetto agli standard precedenti. Negli Stati Uniti, Amazon ha iniziato anche a servirsi dell’AI con l’aiuto della società di robotica Glacier: con un sistema di automazione e telecamere nei propri magazzini, può classificare più di trenta categorie di materiali tra gli scarti degli imballi, e smaltirli secondo le procedure più corrette. Dell’AI si serve anche un retailer come Aldi, che in UK analizza le tipologie di plastica degli imballaggi buttati dai clienti nei punti di raccolta posizionati davanti agli store. Grazie al software eco2Veritas di Greenback Recycling Technologies, Aldi certifica la composizione della plastica misurando quanto sia stata riprocessata e per quali prodotti finali, fornendo una prova oggettiva utile all’erogazione di incentivi economici per il riciclo. Tutti i retailer che ottimizzano i processi di filiera, secondo McKinsey, potranno ridurre del 15% i costi degli imballaggi in plastica, con punte del 40% per alcune categorie.

Tratto da www.mark-up.it

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